Prefazione
“Umbilicus Tusciae”
Era nel tempo che l’Etruria bella
aveva in verità troppi padroni,
e tutto il giorno in questa parte e in quella
c’eran da disputar giurisdizioni…
Si vedeva il confin dalla finestra
e passar si potea con la balestra.
IPPOLITO NERI
“Il Saminiato”, I, 5-6
Quando ormai l’Elsa sta per consumare il suo corso, in parallelo al diverticolo basso della Francigena nuova, questa via s’innesta nella Consolare Pisana che discende la valle dell’Arno. Una lastra di marmo bianco, apposta in tempi leopoldini sulla facciata di una vecchia casa, segnala ancora il capo di strada. L’epigrafe non è priva di suggestione: “Strada Regia dall’Osteria Bianca a Poggibonsi Siena e Roma”.
Se è vero che tutte le strade conducono a Roma, questa è stata la regina viarum per eccellenza, almeno nel medioevo. Non solo: l’Osteria Bianca (che non sia l’Arne Bianca del buon Sigerico?) si configura come il centro gravitazionale della Toscana, ubicata com’è nel bel mezzo delle maggiori città della regione. Con scarti di poco rilievo infatti, Firenze, Pisa, Lucca, Pistoia, Siena ne sono tutte pressoché equidistanti; tutte convergono su questo ineludibile nodo di comunicazione.
Al Repetti non poteva sfuggire tale peculiarità geografica.
Ed invero non mancò di osservare che la valle dell’Elsa “può dirsi la più centrale della Toscana”.
La centralità di un sistema vallivo rispetto ad una rosa di capoluoghi circostanti, mentre determina per forza di cose una osmosi culturale ed economica, non può evitare per converso che il territorio divenga anche campo di scontro. Incontro e assorbimento di genti diverse dunque, ma anche contrasto di interessi in naturale conflitto.
Nella Valdelsa i confini si sprecano. I reliquati toponomastici (Terrafino docet ad avviso del Pieri), i reperti visibili, i ponti, le superstiti giurisdizioni ecclesiastiche ed ipotecarie, decisamente anacronistiche e passabilmente esoteriche al giorno d’oggi, evocano tuttora un passato di confuse stratificazioni geopolitiche e – in epoche remote – anche etniche.
Esaminando la topografia del Guidi o quella del Santini o tutte le altre che sono venute dopo, dal Plesner al Dameron a Moretti-Ruschi, nel tratto compreso fra Colle e San Genesio (“la Roncaglia della Toscana”, sempre per dirla col Repetti), la ricca varietà dei simboli, che contrassegnano gli insediamenti umani e le aggregazioni amministrative in un caleidoscopio di distinzioni gerarchiche e funzionali, sta a dimostrare la complessità dell’originario tessuto istituzionale.
I longobardi passarono come un rullo compressore su ciò che restava della desolata eredità romana, ma alle lunghe – come declamò Carducci – i percussori e gli spogliatori furono “percossi e dispogliati anch’ essi”. Allora la chiesa fu “patria, casa, tomba” comune, mentre l’organizzazione ecclesiastica, fondata sulla diocesi e ben presto articolata nelle pievi (plebes), ripercorse in linea di massima i moduli delle strutture civili romane, ciò che permise al Solmi e ad altri di sostenere la tesi della continuità.
Mentre il feudo cominciava a mostrare la corda e ad esaurire la propria carica vitale fra l’XI e il XII secolo, la Valdelsa era ancora costellata dalla macchie di leopardo dei Guidi e degli Alberti, disseminate ovunque in totale disordine e inframmezzate dai teni-menti vescovili e abbaziali che anticipavano in più luoghi l’origine e lo sviluppo dei comuni rurali.
La liquidazione delle prerogative feudali andò di pari passo con la formazione e l’ampliamento dei contadi municipali, spesso coincidenti con le circoscrizioni diocesane.
Generazioni di studiosi hanno alimentato la polemica sul contado e sui rapporti fra le città toscane e il loro hinterland. Cari Hegel, Villari, Santini, Salvemini, Davidsohn, il primo Volpe, Caggese, Mengozzi furono gli alfieri della teoria di una costante antinomia d’interessi fra città e territorio comitatino. Con Schneider, Vaccari e Goetz in posizione intermedia, Ottokar e il suo geniale allievo danese Johan Plesner, uomo di fulminanti intuizioni e di clamorosi abbagli, rovesciarono brillantemente le conclusioni del dibattito, proseguito poi con ricerche a vasto raggio e giudizi più snodati da Elio Conti, da Enrico Fiumi, dal Violante, dal Cherubini, dal Cardini, dal de la Roncière, dal Chittolini, dal Tabacco, dal Jones, dal Wickham, dal Dameron e da tal moltitudine di epigoni “che’l tempo sana corto a tanto sono”.
Non è certo questa la sede per rimescolare così indigesta materia. Per quanto riguarda il tema del presente volume sarà sufficiente dar conto del dato fisso che, nel periodo qui preso in disamina, il corso del fiume Elsa, da Colle alla foce, segnò il limite delle diocesi di Firenze e di Volterra per circa tre quarti della sua lunghezza. Il tratto terminale della riva sinistra era attinto dalla diocesi di Lucca, che insinuava (come ancora insinua la neoformata diocesi di San Miniato) una cospicua testa di ponte in territorio empolese, quasi per compiacere l’assunto plesneriano del “plebato capo di ponte” con specifico riferimento alla pieve di San Genesio in Vico Wallari.
Ma queste sono piacevolezze di minuta erudizione, ove si ponga mente che già ai primordi del Duecento l’autorità effettiva del comune di Firenze esercitava il pieno controllo della riva orientale dell’Elsa e, in certi casi, si spingeva con sempre maggiore energia e con pesanti influenze di rango politico, economico e culturale anche sulla sinistra idrografica del fiume.
L’entità “piviere”, con la chiesa matrice intesa come chioccia dei popoli aggregati, talvolta destinati a divenire “villages desertes” per il fenomeno dell’urbanesimo e per le ricorrenti crisi belliche ed annonarie, veniva adottata dal comune di Firenze come base territoriale per l’organizzazione del contado e poi per lo stabilimento delle leghe comita-tine, che tanta parte dovevano svolgere nelle vicende a venire e nello sviluppo del successivo assetto giuspubblicistico.
La ragnatela delle chiese parrocchiali antiche e longobarde (quanti San Michele Arcangelo!), infittita dalle più recenti fondazioni, denota che il microcosmo valdelsano, imperniato sull’asse viario romeo-francigeno, riuscì a catalizzare ed a rendere vivacemente operativi, anche sul piano dell’edilizia sacra, i liberi alloderi (gli arimanni cari a Fedor Schneider) e i boni homines senza vincoli curtensi emersi dalla disintegrazione del sistema feudale.
La carta del comune, tutto sommato, fu giocata bene anche nel contado. Le accresciute facilità di comunicazione (la “rivoluzione stradale” del Plesner) fecero il resto. Tradizioni autoctone e apporti forestieri, incrementati dalle sempre più frequenti passate allogene, dagli scambi economici e dalle acquisizioni conoscitive che scaturivano dai rapporti interpersonali intrattenuti sugli itinerari obbligati, nelle “mansiones” ospedaliere, nelle “baccanelle” poste sui valichi collinari, lungo le gore dei mulini terragni (sempre meno bannali e sempre più privati), nei loggiati delle canoniche e all’ombra delle torri d’avvistamento, sui sagrati delle pievi e nel prato dei mercatali, sotto le fronde degli olmi che indicavano i punti di riunione o appoggiati alle “pietrefitte” miliari e di confine, tutto contribuì al sorgere della nuova civiltà medievale in Valdelsa. Spunti locali e stimoli esteriori sono alla radice di quanto adesso rimane di una feconda ed irripetibile stagione dell’architettura chiesastica.
Se siano nati prima gli edifici e poi le strade o viceversa, questo è un dilemma accademico che non sappiamo risolvere. Non si può generalizzare; bisognerebbe studiare caso per caso.
I cultori del principio “ab uno disce omnes” non sono di nostro gradimento. Contentiamoci dei risultati oggettivi residualmente godibili.
Giuliano Lastraioli